Marrakech è un bambino nel suq che porta a spasso un palloncino di SpongeBob.
È il suono di un flauto per richiamare i jinna, che si insinua sulla terrazza.
Sono macchie di colore rosso esplose su tutto e tutti, tranne che sulle bestie macellate, loro, con discrezione, vengono sgozzate nell'ombra.
Sono dedali per nessun dove e per ogni luogo, vorticosi labirinti coperti che sbucano, improvvisamente, nel teatro cacofonico, uditivamente perfetto, della piazza, dove tutto accade, dove tutti sono protagonisti, anche quelli che se ne stanno in disparte, convinti che la società dello spettacolo riguardi solo gli altri.
Marrakech è la vallata sotto le montagne che nessuno vede mai, tranne quando nevica, quando si sta seduti in qualche cafè, e il bianco delle cime fa da contorno ai tessuti ocra appena comprati da qualche commerciante astuto, che si esaminano in cerca di imperfezioni.
È la rivelazione, improvvisa, che il difetto è forza e bellezza di questa città, della sua gente.
Marrakech è l'adunanza dei defunti gratificati, l'inconsistenza della moschea del nulla, alba e tramonto, entrambi con mantelli di limonite, che appaiono in fretta, e in fretta si fanno amare.
2016